Due o tre cose sul cinema "sperimentale"

Che cos'è il cinema sperimentale? Con la definizione "cinema sperimentale" inadeguata e ambigua seconda la maggior parte degli studiosi ci si riferisce ad una vasta area di film, caratterizzati quasi sempre da: a) mancanza di sceneggiatura, dialoghi, interpreti e messa in scena; b) totale autonomia produttiva dell'autore (secondo la definizione di Stan Brakhage il film sperimentale quasi sempre opera di una sola persona); c) particolare attenzione all'immagine in sé (a partire dal singolo fotogramma), immagine vissuta in tutta la sua immensa portata percettiva ed emozionale, capace sia di rappresentare il reale con immediatezza e autenticità, sia di manipolarlo, attraverso tecniche di vario tipo, in fase di ripresa e/o durante il processo di sviluppo e stampa; d) uso di supporti non necessariamente professionali (8mm, super8, 16mm) e in alcuni casi perfino assenza di dispositivi tecnologici; e) uso del montaggio particolarmente creativo e non lineare, ovvero discontinuo, oppure rifiuto del montaggio, che viene fatto direttamente "in macchina"; f) stretta relazione con altre discipline quali pittura, musica, danza, fotografia, ecc.; g) estraneità rispetto ai normali canali produttivi e distributivi, quindi non sottomissione né alle regole della censura, né a quelle di mercato.
Oggi il cinema e il video sperimentale rientrano (e in parte si dissolvono) in quella vasta area denominata "non-fiction" (in cui rientra anche il documentario) distinta dal predominante regno della "fiction", ovvero dal cinema tradizionalmente narrativo. Il cinema sperimentale è per la realtà dell'immagine o per il suo mascheramento? È per la pura registrazione del reale o per il suo superamento? Esiste un cinema sperimentale più interessato alla forma e alla sua elaborazione, indicato con l'etichetta limitante di "formalista". Un cinema, proprio per la sua natura tecnicista, realizzato in gran parte da artisti. Accanto ad esso troviamo un cinema sperimentale dove l'immagine non subisce ulteriori processi di modificazione, un cinema che si pone come presa diretta sul reale, possibilità di raccontare l'esistenza rinunciando alla messa in scena. Le due tipologie non si eludono, ma spesso si fondono tra loro e si completano. Così il ventaglio di sfumature è vasto: da uno stadio di semplice aniconicità, ovvero perdita di qualsiasi elemento figurativo (il cosiddetto cinema astratto) si può giungere fino ad un livello di pseudonarrazione. Dall'assenza di suono o di parola, si passa facilmente ad un cinema fortemente verbale, dove i contenuti travalicano perfino l'aspetto di visivo.
Un grande maestro del cinema di ricerca come Brakhage, ad esempio, contempla e ingloba entrambe le opzioni, semplicemente perché esplora tanto la natura fisica quanto la struttura mentale delle immagini, cercando di catturare la verità ultima (?) dello sguardo. I suoi film rappresentano l'invisibile. Ma, attenzione, non si tratta di espressionismo, non c'è intenzione di caricare il reale, di esprimere l'interiorità umana attraverso un processo di reificazione. L'operazione è ben più complessa e raggiunge un livello totale di "realismo", così assoluto da non poter essere giudicato con i consueti parametri della mimesi. Quando Brakhage, come un alchimista, riprende sé stesso e i suoi familiari risucchiandoli in un vortice visivo dove i corpi si mescolano al pulviscolo e alle interferenze luminose (Scenes From Under Childhood, 1967-70) - e così facendo descrive in modo sia metaforico sia tangibile una sessualità panica, espansa, atmosferica - compie un'operazione tanto spudoratamente pura e intima, che nessun altro documentarista sarebbe in grado di realizzare.
Potrà sembrare un paradosso, ma al primo posto per tanti cineasti sperimentali c'è sempre il rapporto con la realtà, quella più profonda e in conoscibile. Jean Cocteau definiva il suo film metafisico-surrealista "Le sang d'un poète" (1930) come "un documentario reale di avvenimenti irreali". Antonin Artaud, scrivendo il soggetto di un altro film surrealista, "La coquille et le clergyman" realizzato nel 1927 da Germaine Dulac, non intende affatto riprodurre un sogno, bensì ricercare "la verità oscura dello spirito in immagini fatte unicamente da sé stesse, e che non traggono il loro senso dalla situazione in cui si sviluppano, ma da una sorta di necessità interiore e potente che le proietta nella luce di un'evidenza senza ricorso".
Il soggetto principale del cinema sperimentale è la tecnica stessa che, però, è sempre qualcosa di "naturale", di connaturato alla materia iconica, perfino - potremmo dire - di preesistente all'immagine. Al di là del contenuto, un'opera di ricerca nasce in genere da una motivazione tecnologica, dalla voglia di sperimentare un procedimento, di applicarlo ad una determinata situazione. Le possibilità sono davvero infinite, se pensiamo che esistono molteplici varianti e perfezionamenti di una stessa tecnica, oltre al fatto che un film maker può combinare tra loro procedimenti diversi, un po' come uno scienziato in laboratorio mescola elementi chimici, scatenando reazioni filmiche inattese. Le modificazioni del supporto analogico sono di natura chimica ed ottica (viraggi, stampa in negativo, sovraesposizioni, accelerazioni, ralenti, latensificazioni, variazioni cromatiche, interventi manuali sulla pellicola, dissolvenze, esposizioni multiple, split-screen, tecniche di animazione a fase, lettering, mescolanza di formati e supporti diversi, ecc.). Così dal culto assoluto per il cinema come materia, si approda a una dimensione smaterializzata dell'immagine. Osserva giustamente Gilles Deleuze: "Se c'è una costante di questo cinema, è appunto la costruzione di uno stato gassoso della percezione", ottenuto attraverso vari mezzi : il montaggio intermittente, il rifilmaggio, ecc.
Accanto ad una storia del fi1m sperinenta1e o "di avanguardia" (nella sua accezione più storicizzata) - che assume nei vari periodi storici altre connotazioni e/o ulteriori specificazioni ("underground", "struttura1e", ecc.), anche rispetto alle aree geografiche in cui si sviluppa - possiamo intendere tout court lo sperimentalismo non come macrogenere, bensì insieme di particolari tecniche di rielaborazione e modificazione dell'immagine, che si configurano sotto forma di stilemi utilizzati anche nell'ambito della fiction. Il cinema ufficiale ha sempre attinto dal cinema sperimentale, ma negli ultimi anni questo fenomeno si è notevolmente accresciuto tanto da assistere ormai ad un vero e proprio "sperimentalismo di massa": pensiamo solo ai frequenti "saccheggi" da parte del videoclip e della pubblicità.
Come si sta trasformando il cinema sperimentale nell'era dell'immagine digitale? Difficile dirlo. Da un lato è anche giusto che non vi siano più differenze tra sperimentazione cinematografica e sperimentazione video, dal momento che queste due aree fanno parte di un'unica storia; dall'altro è pur vero che esiste una sperimentazione in pellicola - basata su una specificità di linguaggio e di tecniche - che perderebbe di senso se fosse realizzata in digitale. Come si può restituire la forza espressiva di un singolo fotogramma, la matericità della grana, la variabilità dei tempi di scansione, la modificabilità luministico-cromatica tipiche della pellicola attraverso il supporto numerico, che è per sua natura virtuale e smaterializzato? Naturalmente con i software digitali è possibile simulare le imperfezioni, i salti e le rigature della pellicola, ma non si potrà mai ridare allo spettatore la stessa sensazione fisica e temporale di un film proiettato in pellicola. Prendiamo un "genere" sperimentale come il found footage film, tra i più diffusi del momento e ampiamente documentato in questa rassegna partenopea. Intervenire su materiali preesistenti di vario tipo - dal film amatoriale al cinegiornale, dal lungometraggio di finzione alla pubblicità - è qualcosa di fortemente manuale e concreto. Il film maker si confronta con uno sguardo altrui, dunque già codificato, spesso ri-fotografando l'immagine, re-interpretandola criticamente e creando un ulteriore messa in scena. Questo tipo di operazione in realtà viene compiuta anche mediante procedimenti digitali: per esempio lo scratching è una forma di rielaborazione di immagini di repertorio ancora più creativa e complessa, nonché molto affine alla cultura musicale dell'hip-hop e di quei generi incentrati sul rimissaggio di altri brani. Alcuni film makers sperimentali - penso all'austriaco Martin Arnold - creano le loro opere di found footage prima in video, trasferendole successivamente in pellicola; in alcuni casi tali opere possono essere proiettate in entrambi i modi, poiché il risultato finale non cambia sotto il profilo concettuale. Gli stessi Gianikian e Ricci Lucchi - pionieri del found footage - rilavorano elettronicamente i loro filmati di archivio (hanno realizzato una bellissima installazione video alla scorsa Biennale di Venezia). Tuttavia sappiamo bene che un film maker come Peter Kubelka non rinuncerà mai ad usare la celluloide, non potrà mai privarsi del piacere dell'emulsione.
La chimica dunque - almeno nel campo del cinema sperimentale - dovrà continuare a coesistere con l'elettronica, non come alternativa polemica o baluardo passatista, ma semplicemente come completamento tecnologico. La pellicola non è un semplice supporto come nel caso del cinema di fiction, ma un'imprescindibile variabile espressiva. È dunque fondamentale che tanti giovani film makers sperimentali utilizzino pellicola e digitale, magari mescolandoli tra loro, creando proficue convivenze e interferenze, in nome di un diverso modo di fare cinema e di sentirsi autori. Al di là di generi, etichette e definizioni.

Bruno di Marino