I Confini dell’Inverosimiglianza

1. Percezioni s-visive
Ciascuno di noi, secondo Jean Louis Baudry, quando si reca al cinema si trova in uno stato psicofisico del tutto simile a quello del bambino davanti allo specchio primordiale, perché, proprio come accade al puer, anche lo spettatore cinematografico vive una condizione di sostanziale impotenza motoria: è seduto in poltrona e la gamma dei movimenti che può fare senza violare le regole tacite del rituale della proiezione è estremamente ristretta; quasi tutto il suo potenziale di recettività passa attraverso il canale privilegiato della percezione visiva.
Lo spettatore è chiamato ad adeguarsi ai suoi rituali, alla sua prassi. È invocato, in definitiva, ad interpretare correttamente il suo ruolo con tutti i vincoli e le piccole coercizioni che questo può comportare, compresa l’inibizione motoria. “Il film si svolge al di fuori di me, senza alcun intervento da parte mia” (1). In base al medesimo schema di ragionamento, anche la sovreccitazione dell’apparato visivo non dipende, nel caso dello spettatore cinematografico, da una particolare efficienza della funzione visiva, ma è invece il risultato di una serie di accorgimenti posti in essere dall’istituzione cinema: è l’effetto delle condizioni stesse della proiezione, perché l’oscurità e il luogo-sala aiutano lo spettatore a concentrarsi sulle visione, consentendogli di focalizzare la propria attenzione sullo schermo, permettendogli di ascoltare, come ha scritto Abel Gance, “attraverso gli occhi” (2). L’oscurità è una componente essenziale del rituale cinematografico, il luogo ne decreta la sacralità, fattore fondamentale per la partecipazione emotiva: “Non posso mai, parlando di cinema, impedirmi di pensare sala, più che film” ha detto Roland Barthes nel 1975 (3).
La portata di questo processo risiede proprio nel fatto che non c’è niente di casuale in quella che invece egli crede essere la sua naturale condizione di spettatore al cinema; ogni aspetto del complesso rituale della proiezione ha una sua funzione precisa e risponde alla necessità di incentivare una relazione, per quanto possibile osmotica e totalizzante, tra la lo schermo e la solitudine dei singoli spettatori. Questi si adeguano alla prassi cinematografica senza tuttavia porsi, in modo consapevole, il problema dell’artificiosità del rituale della proiezione; accettano liberamente di fare il gioco dell’istituzione cinema. L’astante, ricorda C. Metz, si identifica al proprio sguardo e “si sperimenta come fuoco della rappresentazione, come soggetto privilegiato, centrale e trascendentale della visione” (4) . E l’ “esperienza filmica”, come affermato da Francesco Casetti, “mira all’acquisizione di una conoscenza e di una competenza che consentono di affrontare la realtà e di darle senso” (5). La conoscenza filmica se rimanda da un lato al momento in cui uno spettatore, fruendo un film, si misura con la forza delle immagini e dei suoni, dall’altro rinvia al momento in cui questo stesso spettatore, attiva un sapere. Una cognizione che investe sia riflessivamente (l’atto che sta compiendo), sia proiettivamente, (il rapporto con se stesso e il mondo). Una attivazione dei sensi - soprattutto quello della vista - grazie a qualcosa che appare su di uno schermo; una rielaborazione di quanto si è percepito che investe o re-investe tanto ciò che si vede quanto il fatto di vederlo. Dunque, c’è un film, con il mondo che esso rappresenta, che cattura l’ attenzione e quasi si impone; e c’è il delinearsi di un saper-vedere e di un saper-di-vedere sia il film in quanto tale, sia la realtà a cui quest’ultimo fa riferimento.

2. Vedere dove non si vede
Medesimo l’approccio, identici i riti, le posture, ma molteplici le condizioni psichiche ed ermeneutiche che accomunano e differenziano i numerosissimi spettatori dell’Independent Film Show. La prima cosa che salta agli occhi è che il testo dei film comporta necessariamente un distacco dalla situazione normale in cui quest’ultimo viene percepito. Una caratteristica dei film della rassegna è avere una realtà pressoché inafferrabile. Una fuggevolezza ha da sempre reso questi film un oggetto difficilmente padroneggiabile. Del resto la fascinazione riposa proprio su questi presupposti, assieme a piccoli incidenti di proiezione come l’incepparsi dei proiettori o l’inversione della pellicola. Qui si può vedere dove non vediamo, si può scoprire o nascondere il mondo con le sue corrispondenze psicofisiche. Si lavora su uno sguardo personale, legato alla necessità di un punto di vista, su uno sguardo complesso, in cui la realtà e l’immaginazione si mescolano. Su uno sguardo acuto, che si serve di una macchina per incrementare le proprie prestazioni, su uno sguardo acceso, libero, impassibile, ricco di stimoli percettivi; su un occhio immersivo, attraverso il quale sembra di essere dentro un mondo totale. Anche solo attraverso nebulosi frammenti. Fra schegge che solo probabilmente si potranno ricucire. Siamo dinnanzi a una visione strutturata diversamente a seconda delle realtà incontrate, effettive o mentali, capace di operare distinzioni, modellata sull’occhio dell’uomo e non solo su di una macchina; un angolo visuale che cerca di disordinare gli stimoli forti prodotti da un mondo in tumulto, senza abbandonarsi ad essi. I film stabiliti da Raffaella Morra, organizzatrice e responsabile delle tre sezioni presentate per questa 11esima rassegna dell’Independent Film Show, decretano sempre una certa distanza rispetto al loro oggetto, quasi a ricordare la presenza di una soglia fra osservatore e osservato: una deriva che consente sguardi capaci di addolcire la radicalità di scelte che non celano tensioni. Il risultato di questa apertura è uno scrutare, al di là dei quattro bordi, che sfora i limiti, che deraglia. Cosa accade agli artisti quando si mettono dietro la macchina da presa? “Si riscattano”, asserisce Siegfried Kracauer, “dallo stato di sonno del mondo, di virtuale non-esistenza, sforzandosi di farne l’esperienza attraverso la macchina da presa”.(6)
Contaminazioni, baratti. Oscillano tra seduzioni e trasgressioni, tra infatuazioni e tradimenti. Così i surrealisti, per le analogie che individuano tra le configurazione filmiche e quelle oniriche, tra le associazioni libere in determinate situazioni psicologiche e le tecniche del montaggio cinematografico. Quell’innamoramento di cui parla Tristan Tzara quando scrive, a proposito del cinema che “c’è un grande lavoro distruttivo negativo da compiere”. O quello dei futuristi, “alcuni dei quali”, ha scritto Vincenzo Trione, “si fanno affascinare dall’idea di girare film”, tutti, comunque, conquistati da quello che considerano “il linguaggio della modernità per eccellenza: sintetico, totale, può restituire la realtà nella sua pluralità e, insieme, può dar corpo alle più audaci fantasie; è in grado di analizzare in maniera dettagliata la prosa del mondo ed è miracoloso nel fornire ritratti fulminanti; è capace di imprimere velocità all’occhio e, insieme, di ingabbiarlo dentro una griglia” (7). Personalità multimedia come Warhol ne restano sedotte. I pop artisti, infatti, muovendosi tra tensioni opposte, non vogliono abbandonare la loro vocazione avanguardistica. Si pensi agli esercizi cinematografici warholiani consoni con le sperimentazioni dei situazionisti.

3. In principio, è il cinema. Alla fine, il gioco con le pellicole
Dapprima, c’è il film. Spazio dove si scolpiscono i pensieri. Territorio dove si depositano e si ordinano le impressioni. Luogo nel quale si raccolgono dottrine, conoscenze. A volte, abbiamo addirittura la sensazione che il mondo secondo i film-maker dell’Independent Film Show sia stato concepito per finire in quell’apparecchio magico. Un oggetto prodigioso che ha affascinato molti artisti del XX secolo che hanno dato vita ad avventure forse scandalose. Ma che hanno cambiato la percezione di molte interpretazioni cristallizzate. Poi, c’è lo spazio della riflessività, della performatività e inclusività. È grazie a queste capacità che un luogo non necessariamente destinato agli sguardi sullo schermo si trasforma e diventa uno spazio della visione - meglio ancora, diventa lo spazio per una esperienza di visione filmica. Insomma, la sala si fa ambiente dedicato e insieme ambiente vissuto, in cui un soggetto può giocare e giocarsi. Diventa in qualche modo tableaux des languages.
Spesso la strategia cui i film-maker si affidano è di matrice duchampiana ma, in moltissimi casi, gli artisti tendono a trattare le pellicole come eventi di cui appropriarsi. Le reinventano. Ne sublimano e, al tempo stesso, ne trasgrediscono l’aura. Mirano a dislocarle verso territori inesplorati. A volte, prelevano singoli fotogrammi. Altre volte, le utilizzano già impresse. Oppure rifanno per intero alcuni tratti. Pur con diversi accenti, gli artisti sono accomunati dal bisogno di portarsi ben lontani della serialità. Tendono a produrre esemplari unici, irripetibili, da collezionare, spesso tirati in copie uniche, che hanno il valore di autentiche opere. Per loro, confrontarsi con un film, è come entrare in un arcipelago di libertà. Si tratta di lavori filmici tesi a dimostrare che non esiste alcuna differenza tra la scrittura - specificamente legata alla comunicazione - e la pellicola, ancorata a intenti espressivi. Piacere e fascinazione appagano i desideri non superficiali né momentanei degli spettatori.

4. Archivi d’instabilità
Segni, formule, procedimenti assai differenti fra loro. Spesso mutuati da altre aree espressive, che si intrecciano o si fondono a formare un flusso assai complesso, un concentrato di diverse soluzioni. Nelle pellicole dell’Independent Film Show non v’è compattezza e sistematicità che consentono di far emergere regole ricorrenti e condivise: più che un linguaggio sembra essere un laboratorio sempre aperto. Il film appare troppo ricco ma anche troppo vago per essere assimilabile a lingue naturali, a sistemi simbolici, a dispositivi di segnalazione. Sono documenti che ci fanno precipitare in un archivio instabile di grafie, di lettere, di immagini, di geroglifici, di cifre algebriche. Si relazionano con il desiderio, con l’immaginario, con il simbolico: fanno leva su giochi di identificazione e su complessi meccanismi che regolano il funzionamento della nostra psiche. Tra sequenze continuamente interrotte che scuotono le regole del linguaggio, dentro collisioni governate da processi associativi eccentrici, le pellicole si fanno “fenomeno idealista” (8), dove a prevalere è l’idea. Dinnanzi a noi, iconografie a volte assurde, opera di bricoleur del movimento. La loro immaginazione identifica l’idea cinematografica a una rappresentazione altra della realtà guardando l’illusione perfetta del mondo esterno. Incontriamo segni che significano l’oltre di loro stessi. Si fa deflagrare la linearità della pellicola e l' orizzontalità della significazione. Si fa esplodere ogni unità semantica. La purezza è contaminata dal gusto perla sperimentazione. Si disarticola la logica discorsiva. Si mette in scena un' istantaneità spazio-temporale, in cui si smarrisce ogni centralità. Si gira uno scorrimento di rivelazioni, nel quale la parola non è chiamata più solo a «dire» ma anche a farsi ammirare: si fa costruzione visiva, architettonica, fino a sgretolarsi in un' infinità di particelle. Non meri virtuosismi ma inedite ipotesi. È sullo sfondo di questa disarticolata dialettica fatta di prelievi, di impostazioni, di restituzioni, di prestiti, di imposizioni, che lavorano i film-maker indipendenti. È dentro questa dialettica che essi edificano la loro poetica, le loro narrazioni.
Film da leggere? O una poesia da guardare? Gli elementi verbali vengono modellati: se ne esaltano le valenze visuali, grazie ad ardite scomposizioni. Da questo punto di vista, tra gli altri, illuminanti le cancellazioni di Takahiko Iimura, il quale tratta la pellicola come superfici su cui far scorrere i caratteri in modo da scuotere la sintassi consueta. L’immagine non ha più contenuto, né pronuncia qualcosa. Si fa solo discorso, ponendosi sull' orlo del visibile parlare. Werner Nekes, a cui è dedicata un’antologica dal 1966 al 1985, elabora una scrittura figurata “verso la luce”. Si muove su una sottile soglia, tra significati e significanti, per scompaginare il buon senso. Magnifico il film di Ken Jacobs “in tre D”, impegnato a scioglierne il rebus, inteso come sfida generale del segno, realizza un racconto straniante. Stretcha la pellicola, opera sovrapposizioni e alterazioni. Un fare giocato solo sull’impiego della celluloide.

5. “il festival delle emozioni”(8)
Anche quest’anno la rassegna dell’Independent Film Show diventa esperienza: quella della portata ideologica e del valore estetico dei film, della proprietà del mezzo - mai altrimenti pensata - della possibilità di percepire il senso la durata, la misura misteriosa del tempo. Infine, quella della straordinarietà delle imperfezioni e le granulosità della celluloide, solo in questo luogo godibili.

Loredana Troise

NOTE
1) G. Bettetini, Tempo del senso, Bompiani, Milano 1979, p.73
2) A. Gance, Le temps de l’image est venu, Alcan, Paris 1982, p.64
3) R. Barthes, En sortant du cinéma, in «Communications», 23, 1975
4) C. Metz, Semiologia del cinema: saggi sulla significazione del cinema, Garzanti, Milano 1972, p.78
5) F. Casetti, L’esperienza filmica e la ri-locazione del cinema, in “Fata Morgana”, n. 4, 2008
6) S. Kracauer, Theory of film, Oxford University, N.Y. 1960, p.56
7) V.Trione, Innamorati (e traditori) del cinema, in, Corriere della Sera 30 agosto 2011
8) A. Bazin, Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999, p.11
9) R. Barthes, En sortant du cinéma, cit.