Posso credere a tutto, purché sia sufficientemente incredibile.
Oscar Wilde
Il riconoscimento dell’originale specificità e del valore sempre attuale dell’Independent Film Show sta anche nell’occasione di vivere un’esperienza inattesa. D’incanto, in un luogo distinto, esemplare, ideale. Non di fronte ad un quadro, ma nel cuore di un’opera, da percorrere con la sensazione di cadere dentro una visione: ne percepiamo i transiti, ne cogliamo i sussurri, ne intercettiamo i silenzi, ne subiamo lo shock percettivo. Sguardi parziali ma anche aperti alla totalità, complessi ma anche articolati, accesi ma anche equilibrati: ossimori di compenetrate misure. Amori, passioni, idee, sensazioni, desideri. Trascorriamo la nostra esperienza in un magma di affetti, ricordi, stati gassosi della percezione, che avvolge, orienta, indirizza.
Poi, le tensioni culturali che hanno scandito la nostra esistenza affiorano. Dapprima lasceranno lievi orme, che col tempo si consolidano nella memoria. Dei mondi in cui ci siamo mossi permarranno tracce sconnesse; restano però le nostre ipotesi, schegge di edifici e di strutture, di opere e di oggetti. Tasselli di mosaici esplosi, barlumi di specchi disintegrati, frames di films identificabili. Parole possibili da decifrare, dettagli rimandabili a contesti ignoti.
Una dinamica che non nasconde tensioni, semmai, produttivamente, cerca di trarne beneficio. Nel costruire il suo ubi consistam, l’Independent Film Show sa realizzare alcune esigenze, introducendo diversivi che le hanno rese praticabili. Come se avesse lavorato, psicoanaliticamente, su spostamenti e condensazioni: se il mondo è a pezzi, lo si dia a vedere così, purché i frammenti appaiano come tessere da poter riassettare; se la realtà stimola i sensi, che li ecciti, purché si possa seguirli ad un ritmo accessibile.
L’immagine filmica è limitata da quattro bordi, ma nel contempo tende a superarli, a incarnare il bisogno di un rapporto fusivo tra soggetto, oggetto e ambiente. L’attività pedagogica della Rassegna ci ha educati ad un vedere formalistico ma anche ad un capire integrale, in cui l’analisi si fonde con il contenuto sentimentale ed ideologico che in quelle immagini si realizza. Una specie di percorso sincopato, quello che Einstein chiamava sentiero dell’occhio: l’alternarsi dei punti di vista come angolazione, come ampiezza e ritmo peculiare; l’estrema sollecitazione delle potenzialità del mezzo tecnico, che deve esser capace di assicurare la flessibilità e la capacità di penetrazione dello sguardo critico nella profondità della rappresentazione. Chi segue i films si confronta non con la realtà ma con le immagini che la rievocano, lo spettatore rielabora e integra percettivamente gli stimoli filmici e nello stesso tempo sospende deliberatamente la sua incredulità.
Natura di cose è loro nascimento, con certi tempi e certe guise.
Giambattista Vico
La “degnità” della Scienza Nuova di Giambattista Vico, che guida costantemente il processo del comprendere (nel caso specifico i fatti figurativi), per una poetica come quella dell’ Independent Film Show, dove la realtà è la storia che costantemente si disvela, trova nel cinema sperimentale un’efficace materializzazione delle guise nei tempi propri. E la concezione del tempo, che nella sua mutevolezza qualitativa è svincolata da ogni determinismo e si modella sulla durée réelle di Henri Bergson, ben si accorda con la duttilità delle sequenze filmiche.
Sembra poco coerente ridurre a parole ciò che l’evento annuale dell’Independent produce come soggetto; la nostra inveterata abitudine di procedere per verba fa sì che davanti a un testo scritto, in cui si sintetizzano alcuni momenti, appaiano assai e meglio evidenti molte intuizioni critiche, che invece i testi filmici dell’Independent inducono a rilevare.
L’idea di fondo è che le pellicole proposte dalla passione e talento di Raffaella Morra siano manifestazioni del linguaggio visivo che, come quello verbale, grafico e figurativo, possono essere non soltanto parola-espressione ma anche parola-concetto-azione, ed assumere la funzione di metalinguaggio autonomo, capace di quella relazione di interpretanza che solitamente si attribuisce alla comunicazione verbale. In questa loro flessione prosastica, i films, valendosi del proprio carattere di visualità dinamica e ritmica, si pongono come percorrenza critica del tempo sul tempo, che da un lato pertiene all’organizzazione e alla lettura formale della superficie del testo figurativo, e dall’altro dispiega la genesi storica dell’atto creativo, a sua volta attinto e compreso soltanto dipanandolo come processo da seguire nelle sue articolazioni, connessioni, manifestazioni del fare artistico.
Molte le tendenze dell’esercizio filmico sperimentale, è cosa nota. Originali, criptici, complessi, per l’organico collegamento con la concezione generale del linguaggio visivo, per la consapevolezza delle possibilità offerte dal mezzo cinematografico: dalla drammatizzazione o narrativizzazione, a quella creativa che fa del film il pretesto per un’opera esteticamente autonoma, dalla possibilità di usare la cinepresa per isolare i particolari e avvicinarli enormemente, in modo da funzionare come schemi di pura visibilità nelle varianti formalistiche e psicologiche.
Ma in cosa consiste la qualità specifica di questa settima arte? Nella velocità di sequenze delle immagini? Non esclusivamente, dichiara Thomas Draschan, ma nell’impossibilità di seguire in maniera sufficiente il livello di rappresentazione artistica; la qualità sta nel processo di appropriazione intellettuale ed interiorizzazione del materiale. Affine è il punto di vista espresso da Fred Camper, per cui si tratta di una questione di luce nel tempo, di spazi significativi, fotogramma dopo fotogramma, espressivi e unici, in cui l’aniconicità può raggiungere anche un certo stadio di pseudo narrazione. Per Xavier Garcia Bardon, intervenuto alla quarta e quinta edizione IFS, sono “…forme improvvisate, corrispondenze segrete, approcci ludici, re-invenzioni personali del dispositivo: la storia parallela del cinema sperimentale è quella delle forme libere proiettate qui…”. È una storia ciclica di alti e bassi, ha scritto Katia Rossini, poiché il cinema sperimentale è soprattutto uno stato della mente che può esser vero soltanto per sé stessi, motivato dalle scelte personali, non imposto dalle tendenze o dai canoni standardizzati. Le possibilità sono infinite, dall’uso della pellicola emulsionata, insostituibile per Peter Kubelka, ai pionieri del found footage Gianikian e Ricci Lucchi, ai procedimenti di expanded cinema, fino al digitale.
Qual è il segreto della settima arte? Qual è il segreto della sua forza di attrazione? Questo segreto, penso, bisognerebbe cercarlo in quella speciale capacità del cinema di rappresentare la solitudine.
Marc Augè
Noi che conosciamo i segni dell’alfabeto dell’Independent Film Show, sappiamo quali gioie e pressioni sono racchiuse dentro un viraggio di colore, una mesta dissolvenza, un silenzio aspro, un rumore bianco, tra i fianchi di un sibilo incessante: ciò che di primo acchito appare come una mera tautologia, è invece il risultato di una rivelazione, di un autentico shock esperienziale. L’esatto contrario dello sguardo distratto e ordinario che si accontenta di arrestarsi sulla superficie. Spettatori senza rete di protezione, ci troviamo immersi nel paesaggio che scrutiamo, ne condividiamo il destino, facciamo i conti con l’imbarazzo della vastità del mondo esterno, che perde il suo peso, spazio, tempo, la sua casualità e si riveste con le forme della nostra coscienza.
Osserviamo queste pellicole e continuiamo a tastare il reale, che si lascia trasformare in qualcos’altro, sciogliendosi fra le dita. Fissiamo i films: conserviamo una relazione con il mondo e riflettiamo sulla sua perdita, tratteniamo il reale, e nello stesso momento il nostro occhio-regista esce dall’orizzonte della nostra esperienza e si smarrisce.
Ciò che sporge da queste immagini evanescenti e radiose è proprio lo splendore e il congedo, l’esaltazione e la privazione. Insomma, l’afferrare e il perdere, il conquistare e lo smarrire, in un gioco che si realizza davanti ai nostri occhi e nel quale, nello sconcerto di una solitudine d’ambra, siamo presi. Gioco sontuoso. Riservato a pochi.
Loredana Troise